Ex Yu, un racconto intorno ad un paese che non esiste più

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Il maestro ci segnala il bellissimo racconto di Milena Jankovic (email) in gara al concorso Lingua Madre promosso dal centro Pensiero Femminile di Torino.

Milena è serba e vive in Italia da sei anni.

Eccovelo in anteprima.

EX YU

“Ex Yu” è una specie di epiteto usato molto spesso per descrivere tuttoquello che aveva ed ha ancora a che fare con la Yugoslavia “che era unavolta”, col paese in cui abitavo io quando ero piccola. Questa etichettasi applica alla musica dell’epoca, ai film, alla corrente di pensiero,agli stipendi di allora, all’architettura, alla politica, all’unicosistema economico nel mondo (cosiddetta “autogestione”), alla naturaintatta, ai milioni di turisti … a tutto quello che fa l’immagine diun paese. Dunque, quando ero piccola tutto era etichettato con “Ex Yu”, tutto era finto, ma tutto funzionava bene, almeno per quelli cheguardavano con disprezzo il capitalismo. La chiesa non c’era e in quelsenso eravamo, direi, beati. I soldi c’erano sempre e dappertutto,normalmente tutti avevano lavoro, e tutti i tipi di assistenza sanitaria, sociale, etc. Le scuole erano buone, si imparava il russo, maanche il tedesco, era importante sapere tutte e due le lingue: quelladei nostri amici, e quella dei nostri nemici. Si ascoltava tutta lamusica che arrivava da fuori, ma esisteva anche la scena “Yu”, ed erabella e ricca. I film erano divertenti, molto umorismo, molte cazzateper distrarsi. La squadra nazionale di calcio era composta da quindicietnie diverse, ma si cantava l’inno chiaro e forte con la mano sul cuore.

Quando ero piccola i miei genitori lasciavano me e mio fratello davantiall’asilo alle 5:45, perché cominciavano a lavorare molto presto. Quandomio fratello cominciò ad andare a scuola doveva portare prima meall’asilo, ma non ci riusciva quasi mai perché anche io volevo andare ascuola. Così l’ultimo anno d’asilo io andavo a scuola. La nostra scuolaera un grande edificio in stile “realismo sociale”: tanto cemento, unpo’ di vetro, una soluzione architettonica coraggiosa per la palestra,una mensa grande e schifosa e un cortile verde ed enorme con i campi dabasket, calcio, tennis, minigolf, e così via. Io abitavo a venti metridalla scuola, in un palazzo che non usciva fuori dai canoni dellaarchitettura comunista, in un appartamento che ci aveva lasciato miononno e che lui aveva ottenuto dopo un duro servizio militare di forseventi anni. Siccome non gli piaceva Belgrado e la vita in città, ilnonno se n’era andato al mare, come tanti altri pensionati, a raccontarele storie di guerra in tranquillità e in pace. I miei genitori andavanoogni settimana a Budapest e Vienna; a Budapest per curare mia madre e aVienna per fare shopping. Si viaggiava sempre in macchina e si andavaspesso al mare, in montagna, a Trieste, in Grecia, in Turchia…un po’dappertutto. Mia madre parlava il russo, mio padre il tedesco ma nonimportava perché tutti parlavano Serbo.* Io guardavo tutti gli sport chec’erano in TV, tifavo sempre per quelli che avevano le bandiere rosse,bianche e blu (come la bandiera della Yugoslavia), odiavo il giallo e ilnero ma non mi piacevano neanche gli austriaci (ancora oggi tifo per irussi, i greci, ma pure per gli austriaci se giocano contro i tedeschi).

Ero in terza elementare quando morì mia nonna, l’unica vecchietta che mifosse mai piaciuta, con la quale ho vissuto dai miei due anni finoall’asilo, insieme al nonno. La sua morte mi gettò in una tristezzaprofonda e insistente, sentita per la prima volta nella mia vita. Avevootto anni e non capivo molto, ma capivo che era un dolore.

Un anno dopo, un filmato scioccante in TV – mi ricordo, proprio dopo iltelegiornale – ci rivelò la verità sul nostro paese. Girato di nascosto,diceva una voce narrante, il video mostrava alcuni generalidell’esercito jugoslavo parlare e fare dei progetti per un complotto.Non si capiva molto. Poi qualcuno venne ucciso sulla soglia dellapropria casa. Rimanemmo tutti senza fiato. Infine ancora grandi generalie delle frasi sconnesse ma decisamente cospiratorie, E pure la vocenarrante lo sottolineava. Yu era in procinto di diventare Ex. Pochi mesidopo, scoppiò la guerra, la mia classe a scuola diventò troppo grande acausa dei profughi. Loro non ci assomigliavano molto. Avevano accentistrani, vestiti sdruciti e occhi sempre pronti per piangere. Ero inquinta quando cominciai a fumare, marinare la scuola e fare tutto ciòche non si doveva fare. In sesta avevo un compito prima di andare ascuola: andavo a fare la fila davanti ai negozi di alimentari; il panenon c’era, e quando veniva era poco. Facevo la fila con le madri deimiei compagni di scuola e con i pensionati vicini di casa; la gentelitigava e io provavo disgusto perché mi sembrava che avessero persoanche la dignità. Gli anni passavano e non cambiava niente. Carenza ditutto. Il degrado si vedeva e si sentiva dappertutto: urbano, culturale,onnipresente. Una cantante folk, con i capelli viola, “obicna seljanka”,una “cafona”, rozza e ignorante, diventò Ministro della cultura. Iopiangevo e sentivo rabbia, mia zia era contenta perché quella lì avevacantato al suo matrimonio venti anni prima.

Nessuno ci fece caso ma abitavamo già in Ex Yu. Serbia e Montenegro, leuniche due repubbliche rimaste unite delle sei, portavano ancora il nomeYugoslavia, nome di cui non erano ormai più degne. Ora non si poteva piùviaggiare all’estero, a causa della carenza di benzina e dei passaporti“rossi” **, la musica faceva schifo, io vidi per la prima volta unapistola e un Kalashnikov, la vera bomba e la vera paura negli occhidella gente che ha perso tutto. Sentivo rabbia e avevo una stranasensazione che la vita non fosse sempre “fair”. Sull’autostrada vicino acasa mia c’erano chilometri di code. Ero adolescente e abitavo in unpaese che ce l’aveva con tutto il mondo, oppure tutto il mondo cel’aveva con noi, non l’avrei saputo mai, ma non mi importava più, ormaiera finita per me.

In Serbia tutto diventò volubile e pericoloso, avere molto e non avereniente. Nel 1999 ci fu il bombardamento, e la Serbia, che era sempre inguerra ma mai nel suo territorio, fu colpita. Non si capiva più niente,neanche quando tutto finì. Ma prima di finire, il bombardamento ci rubòtre mesi della nostra vita. A me rubò tre mesi del mio diciottesimoanno, mi rubò l’acqua e la corrente, mi fece sentire depressa, mi fececonoscere i miei vicini di casa, mi fece perdere le speranze, mi mise lapaura e l’ansia, mi fece riflettere e alla fine mi fece pure capirequalcosa. Vivevamo tutti da un giorno all’altro, alcuni come se fosserogli ultimi. Vivevamo senza domani, ma con tanta voglia di vivere.

Una volta finito il bombardamento io andai a cercare la mia fortuna aCipro, ma non durai molto. Tornai a casa e trovai che niente eracambiato, finché non cadde Milosevic. Avevo allora diciannove anni e erodecisa a non vivere più in Serbia. Intanto nel paese c’era una grandeprotesta che chiedeva la destituzione di Milosevic: in un giorno duemilioni di protestanti distrussero quello che il bombardamento e glianni di crisi non erano riusciti a distruggere. Io non andai ad alzarela mia voce, non mi sembrava che sarebbe cambiato molto, ormai eravamoscesi troppo in basso. I miei amici mi detestavano per questo. Iodetestavo la loro superficialità e sopratutto detestavo “OTPOR” (”Laresistenza”) che era assolutamente “di moda”.

La rivoluzione non portò niente di buono. L’esercito arrestò Milosevic eio piangevo. Mi vergognavo di essere nata in un paese che aveva creatouna persona come lui e mi vergognavo di essere nata in un paese che nongodeva più di nessun rispetto. Odiavo la mentalità di quel paese chiusoin se stesso, odiavo le armi e le divise, odiavo le case abusive, lamusica serba degli anni ‘90, la moda, l’assenza di cultura, la nostalgiadi quelli che si ricordano ancora e ne parlano spesso, odiavo tutto ciòche portava il?sapore dell’ Ex Yu.

Un giorno, di ritorno a casa in Yugoslavia, conobbi una donna che midisse: “Non si chiama più così”. “Non ho capito” dissi io.?”Da ieri sichiama Serbia e Montenegro” rispose.?”Ah, bene… allora è successomentre ero in viaggio…che strano…”.?Sarebbe stato uno shock pertutti tranne che per i serbi, ormai abituati a non sapere da doveprovengono e dove ritornano.

Questo è quello che io porto con me, che porterò tutta la vita, che è a volte inspiegabile, che spesso dimentico, che ricordo all’improvviso,che mi fa ridere oppure piangere senza una ragione visibile, questo èinevitabilmente una parte di me. Credo di essere nata in un postosbagliato in tempo sbagliato. Appartengo a una generazione distrutta,metà dei miei amici sono all’estero, altri sono morti di droga, colpi?dipistole, incidenti, è rimasto poco degli amici e di quel paesedevastato. Non c’è bisogno di rammaricarsi, non c’è neanche lo spazio eil tempo per farlo. Ma certe cose non riesci mai a digerirle, certe cosele dimentichi, certe ti svegliano dopo dieci anni una notte in un’altraparte del mondo, forse accanto a uno che non lo potrà mai immaginare.?

E io oggi mi sveglio in una città grande e decisamente bella, non tantodevastata come la mia, ma ugualmente trascurata. Mi sveglio come tutti iventiseienni, non troppo presto, spesso in ritardo, e sempre con latesta piena di domande. Mi tormentano gli stessi problemi che tormentanoi miei coetanei, e magari qualcosa in più. Per Natale non torno a casa,né per il capodanno, né per il mio compleanno.

*esiste appunto il detto che dice: “Govori srpski da te ceo svet
razume” (parla serbo, che tutto il mondo ti capisce)

**che in realtà erano e sono ancora blu e portano ancora scritto
Yugoslavia.

Milena Jankovic